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BischettiVita/Texto
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[Texto]

Da Pietro Calasanz, e Maria Gastoni, coppia ben meritevole d’immortali honoranze, nacque in Peralta della Sal, Diocesi d’Urgel, nel Regno d’Aragona il Venerabil Servo di Dio Giuseppe Calasanz, Fondatore e Generale de’ Chierici Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie.

La Nobiltà de’ suoi Genitori fù riguardevole, ma io quí non mi stendo in essagerarla, perche non accresce vanto à Gioseppe. Quel che egli conculcò con generoso piede, non voglio io mettergli in capo per corona di lode. Sono ammuffiti quegli encomii, che si fondano sù l’antichità. La gloria è di coloro, che l’acquistano con sudore, non di quelli che dall’altrui mano la ricevono. Il sentirsi disceso da progenitori illustri non serve d’altro, che di stimolo à que’ magnanimi cuori, che si ascrivono à nota d’infamia l’esser per l’altrui attioni famosi. Mostrarei d’haver poco che dire de’ meriti della vita di Gioseppe, se mi fermassi in descrivere i privilegi della sua nascita. Quello è vero sole, che non va mendicando la luce, ma sparge come da sè stesso gli spledori. Le perle orientali non lasciano d’esser prezzate per rachiudersi trà le corteccie d’una ruvida conca. La rosa non perde il titolo di regina de fiori, perche nasce frà le spine; e l’oro istesso uso à fregiare le tempie de’ Monarchi, riceve l’essere nelle più oscure, e basse viscere della terra.

In ognimodo prenderò licenza de ricordar qui un suo antenato per una bella, ma disuguale corrispndenza, che vi è frà di loro. Viva è pur anche nelle bocche degli huomini, non men chè celebre nelle carte degl’historici la memoria gloriosa di Beltrando Calasanz. Questi impatiente della quiete, e dell’otio, passò buona parte della vita ne’ militari essercitii, et andando con non poco numero di soldati mantenuti a sue spese contro il Conte d’Urgel, riportò in premio delle sue vittorie dal Rè Giacomo il Conquistatore per arma della sua famiglia un cane con una borsa d’oro in bocca; e Gioseppe, vegliando del continuo nella custodia di la Chiesa, meritò, non in riguardo de’ suoi antenati, ma dise stesso, el titolo di Cane fedele; e sborsando à larga mano le sue facoltà, tenne, non in bocca, ma in mano le borse d’oro; se non vogliamo dire che, consolandogli con le parole, havesse havuto, anche nella boca, quasi nuovo Crisologo, l’oro.

Doppo sei parti fù l’ultimo, et il settimo, Gioseppe, quante appunto sono state le meraviglie del mondo. In quest’ultimo si fermò la fecondità de’ suoi genitori, perche erano già arrivati al non plus ultra de’ loro parti. Hà non sò chè di misterioso questo numero, mentre anche Iddio requievit die septimo ab universo opere, quod patrarat. Noè con sette persone entrò nell’Arca; nel settimo giorno mandò fuora la Colomba; doppo sette mesi fermassi l’Arca nel monte Ararat; e racchiude felicità grande perche oltre il detto del Poeta, numero Deus impare gaudet. Leggiamo ancora, che l’istesso Dio benedixit diei septimo, et sanctificavit illum. Frà questi setti pianeti io chiamarei Sole Gioseppe. Sarebbe stato dissonante il concerto di questa musica fraterna si vi fusse mancata questa settima voce.

Chi diegli nome di Gioseppe nel battezzarlo, non pretese forse altro, che rinovar la memoria di qualche antenato della famiglia; ma un Dio, che negl’istessi accidenti casuali há disegno, volle che Gioseppe ò dimostrasse nel suo Nome epilogate le virtù dei quell’altro antico, ò pure havendo da inventare una nuova maniera di coltivar le tenere piante dell’era puerile, portasse espressi anche nel nome gli accrescimenti nella pietà e nelle lettere.

Succhiava insieme col candor del latte la purità della virtù, e pareva, ben che bambino, inchinato di sua natura à perfettissimi amaestramenti. S’improntavano facilmente i caratteri de’ salutevoli documenti nella cera di quel cuore, tenero per l’età, e riscaldato dai raggi del favor divino. S’aggiugeva all’efficacia dell’indole e dei paterni insegnamenti quella assai più viva, e più breve de’ domestici essempi, che parlando agli occhi fedeli senza strepito di parole, è solita facilmente persuadere. Era tutto dedito alle divotioni, lontano da vezzi, distaccato da tutto ciò, che rapisce, e nudrisce un cuor fanciullesco.

Soleva bene spesso uscir dalle porte della città, e stringendo un coltello in mano correr con impeto per la campagna, dicendo di voler in ogni conto amazzare l’inimico infernale, trapassarlo con mille ferite, e fargli uscire il sangue tutto dalle vene; et una volta frà l’altre fù da Dio preservato da un evidente pericolo di morte, al quale l’haveva già condotto el Demonio, pauroso di sì alti principii. O chiari pronostici delle future vittorie di Gioseppe! E chi mai vide in età più molle vestigii maggiori di un animo forte, e pietoso? Ben si scorse da cosi bell’alba della sua pueritia il lucidissimo sole di tutta la vita. Si conosce da una linea un Apelle.

Si diede agli studi della Grammatica, e della Retorica, e fè tal profitto, che nelle istesse lettere humane dimostrò haver ingegno divino. Aggiuge con la dottrina la modestia, e la santità. Onde gli stessi, che l’insegnavano, potevan con verità confessare d’haver havuto, che imparar da uno scolare. Stimava, studiando Grammatica, solecismi e barbarismi le parole vane; attendendo alla Retorica, procurava d’approfitarsi non solo nel ben dire, ma anche nel ben fare. Passato nella Dialettica imparò à conchiudere insieme la pietà, e la dottrina; e fatto perfetto argomentatore dagl’istessi studii delle lettere deduceva et inferiva quelli della Religione. Sentivasi disputare, ma con modestia; il suo fine era di trovar la verità, non d’abbaterla. Amava tanto poco i litigi, che non gli saria dispiaciuto esser vinto, per lasciar di contrastare.

Fù mandato da suoi agli Studio in Lerida, Valenza, Salamanca et Alcalà d’Enares, e da quelle fiorite academie succhiò il perfetto mele delle scienze. Onde veduti i gran progressi, che haveva già fatti, vollero i suoi che si addottorasse, come fece, in legge civile, e canonica, e nella sacra Teologia.

Stimano molti, che fan dello spirituale, esser le lettere contrarie allo spirito; ma non si avengono, che il loro spirito è troppo materiale. Chi non sà lettere, come sà dar giuditio della qualità delle lettere? Gl’ignoranti odian le lettere, e non le posson vedere; e perche non le posson vedere, per questo l’odiano. E come quelli che professano menar vita apostolica, mai non si scordano del detto mal’inteso dell’Apostolo, littera occidit, e le fuggono, perche le stimano micidiali.

Volle Iddio, che Gioseppe, destinato capo, e Fondatore d’una nuova Religione apprendesse segnalatamente le scienze. Io sarei d’opinione, che non si dovesero mai dar cariche di governi à persone che non possiedono lettere; non potendo dar perfettamente legge agli altri quelli, che non sanno chè cosa comandono le leggi. Platone soleva dire, che sarebbe all’hora felice il mondo quando incominciassero i Rè à sapere, ò i savii à governare. Numa, quel famoso legislatore, e saggio Rè de’ Romani, volle, che molti libri fossero insieme col suo corpo sepolti. Fù costume antichissimo de’ Rè dell’Egitto di compaginar i loro volumi della materia istessa, che si fabricavano le corone. Scrivevano sulle foglie del papiro, e delle medesime s’inghirlandavano. Alesandro si guadagnò titolo e concetto di Rè grande per haver parlato con la lingua d’Aristotele agli Ambasciatori del Rè Persiano. Dionigi Siracusano da chè incominciò à filosofare, sotto la disciplina di Platone, cambiò il nome di publico carnefice in quello di semideo. Nell’Arca fù unita la legge, e la Manna; e nel Paradiso l’albero della vita con quello della scieza. Un buon superiore accoppia l’attioni cogli ammaestramenti. Anche nella sacre carte si dice Quis mihi det, ut librum scribat ipse, qui iudicat?

Inimico dell’otio consumava studiando tutte quell’hore, nelle quali altri si davano a gli spassi; e poco curandosi delle corporali sodisfationi, che da gli altri si stimano mezi necessarii per mantener la salute, elesse piu presto d’esser magro e dotto, chè di congiunger colla grasseza del corpo quella dell’ingegno. Confuse in questa maniera l’opinion di coloro, che stimano essersi un dotto infermo di già reso inabile ad essercitar degnamente le cariche honorevoli degli ufficii. S’asterriano da simili propositioni s’havessero mai letto l’invettiva d’un Imperator di Roma, il quale sentendo che i Senatori disegnavano deporlo, per esser podagroso, si fè condurre in mezo di loro, e sgridatigli, sigillò la riprensione colla sentenza Nescitis, caput imperare, non pedes? O ciechi, non sapete, che un dotto infermo hà tanto sbrigata la mente quanto impediti i piedi? Ma qual è maggior infirmità, quella del corpo, ò quella dell’animo? I superiori hanno da comandare et indirizzar gli altri, non da fare il facchino. A questo sono necessarii i piedi, à quello basta solamente la testa. Dunque non si hà da fatigar per la Republica, e per la Religione, perche doppo le fatighe succedono l’infirmità, e doppo queste mancono le cariche de’ superiori? La virtù consiste nell’attione; l’Agente quando opera patisce; quando patisce si debilita; indebolito s’inferma; dunque non bisogna esser virtuoso per esser superiore? Nescitis, caput imperare, non pedes?

Conservavase tanto più humile, e basso, quanto più alte, e più sublimi erano le scienze, e gli honori, che conseguiva. Hebbe per isfera delle sue attioni l’honestà; fuori di essa non vide, nè udì mai. Questo fù l’oggetto de’ suoi sensi, la motrice de’ suoi affetti, la regolatrice delle sue passioni.

Occorse per maggior prova della sua virtù, che ritrovandosi un giorno ne’ gabinetti più remoti d’una Dama, à cui serviva di secretario, fù da lei con dolci, sì, ma disoneste lusinghe aspramente assalito. Chè farai qui Gioseppe? In che modo renderai tù vani i concenti di questa Sirena, o per dir megio i sibili di questa Medusa? Se porgi l’orecchio, assicurati di letargo; se rivolgi gli occhi, d’insassirti (d’impetrirti). Li veggio in un laberinto, ma quanto più pericoloso dell’altro, se qui l’Arianna congiura col Minotauro per divorarti! Ché farai Gioseppe, e come te schermirai da un affetto così potente con tutti? Sò, che per liberarti desideri le spine di Benedetto, le nevi di Francesco, et il foco di Martiniano. Ma dove sono? Hanno, è vero, qualche similitudine colle prime i denti, colle seconde il petto, e coll’ultimo le pupille di chi t’assalta; ma non ti salverebbeno già; se ti servissi di loro, ti perderebbono. Ché farai quì Gioseppe? Io così ti dimando. Ma tu, che sai quanto sia malsicura la tardanza di risolvere nei pericoli della sensualità, fuggi precipitosamente; la tua fuga simile a quella de’ Parti, trionfa, non di lei sola, che rimase fuor d’ogni sua credenza delusa dalla speranza, ma dell’inferno, che sà quanti pochi resistono agl’influenza della bellezza. O quanto potrebbe dirsi, di così bella, e meravigliosa vittoria di Gioseppe! L’opporunità del luogo, fregiato forse in quel giorno ad’arte di pitture, che servissero d’incentivo alla concupiscenza; l’età giovanile del vincitore, che riempie, come dice Davide, i lombi agli huomini d’illusioni; la beltà di quella infelice, che per assicurarsi di vincere, è verisimile, che accompagnata da i vezzi, e corteggiata dalle gratie, comparisse nello steccato, somministrano argomenti nobilissimi all’essageratione; ma ricusa penna consacrata nei chiostri d’una religione così essemplare di raggirarsi lungamente intorno a materie simili. Sà che, se ben da loro amplificata potrebbe più vivamente spiccar la vittoria di Gioseppe, potrebbono ancora dalle medesime (tanta è la fragilità humana) cagionarsi negli animi, non perfetti, commotioni poco lodevoli. Così è per certo; e Gioseppe istesso m’insegna colla sua fuga, che successi così fatti non debbono trattarsi, ché alla sfuggita. Concludo però, che fuggì, ma vinse, e che non solamente ad imitatione dell’antico Gioseppe lasciò il mantello, ma depose l’ufficio, abandonò la casa, s’elesse volontario essiglio da quella contrada.

S’infermò gravemente; ma facendo voto di farsi sacerdote, guarì subito. Forse non pretese il Cielo, chè per mezo di questa infermità essiger da Gioseppe el tributo già detto. La febre, istromento delle mani vendicatrici di Dio, voleva incitarlo agli honori, non deprimer con i gastighi. Son bene spesso l’istesse afflictioni causa de molte contentezze. Quanto sono diverse le vie del mondo da quelle di Dio! Quello solleva per sopprimere, questo sopprime per sollevare. Tirò Iddio un poco più le corde per isvegliare melodia più sonora; et acciò non mancasse la battuta, lo percosse di questa infermità. Udissi cantar all`hora Gioseppe quel motteto: Vota mea Domino reddam; mentre tornato nella sua patria (se pure può restringersi la patria d’un virtuoso in una sola città) ordinossi Suddiacono; ascese al Diaconato; fu promosso al Sacerdotio.

Fatto sacerdote, lascio à chi legge il considerare a quali gradi di virtù insieme colla dignità sacerdotale fusse assonto. Stimavasi indegno di tal honore, ma con questa istessa stima vi più degno rendevasi. Procurava sempre farsi migliore, anche quando era divenutto ottimo. Haveva parole atte a far discendere Christo dal cielo in terra, et haveva opere colle quali disceso poteva tratenerlo. La divotion di Gioseppe nel recitar l’ufficio divino, la riverenza, con che si accostava all’altare, erano tanto eccesive, che il volerle raccontare sarebbe un incominciar sempre, e non finir mai.

Tratenesi alcuni giorni per aiutante di studio col Vescovo di Jacca, il più dotto ch’havesse in quel tempo la Spagna; dagli ammaestramenti del quale receverono il lume della dottrina quelle due stelle del cielo scientifico, Medina e Bannes. Fù questo non leggiero argomento della virtù di Gioseppe, che anco in età giovanile potè prenere tali ufficii, e presi essercitargli con gloria. S’arrossi la canuta Vecchiaia in veder, che si trovava prudenza tanto grande in un giovane; in una verde età, tanti frutti. Non s`hebbe riguardo al tempo in Gioseppe, le di cui attioni riguardavano l’eternità, la quale non hà tempo. Vedano adesso i nemici della gioventù, se anche i giovani sanno con lode mantener la cariche loro imposte. Se i peli e la barba facessero l`huomo degno d’ufficii, ogni satiro potrebbe pretender d’esser superiore. La purità, e sincerità, ricercata ad un capo, non si dee prender dalla bianchezza de’ peli, ma da quella del cuore.

Era tanto lontano da ogni affetto di gloria, che se fece molto per esser di sante costume, non fece niente meno per non parerlo. Era costretto si bene, anche non volendo, esser honorato, à ricever gli honori. Quelli, che volevan premiar la di lui virtù, riguardavano al merito, non al desiderio. Fù confessore, e teologo del Vescovo de Lerida con l’aggiunta dell’honorevole carica di suo publico essaminatore. L’honore è simile all’ombra del corpo: quanto più veloce và questo, tanto più frettolosa quella lo seguirà. Hebbi gran cervello chi disse, esser gli honori di animo vile, perche all’hora ti seguono, quando li discacci.

D’ordine del gran Monarca delle Spagne Filippo secondo, visitò col medemo prelato la S. Casa di Monserrato, e per sei mesi continuoi, che durò quella funtione, s’addossò sù le proprie spalle la maggior parte delle fatighe; nel resto del tempo, che gli sopravanzava, era solito trattenersi con molta divotione in quella S. Chiesa; forse per dar conto a Dio di quanto in quella visita haveva operato, ò per consultarsi di quel che gli restava ad operare. Chi fà le cose per Dio, non ricusa, fatte che sono, riferirle all’istesso Dio. Non potevano non riuscir felici i suoi negotii, mentre gli faceva sotto la direttione di tal consultore. Bisogna orar bene per vincere le cause.

Era già da pertutto la fama della santità, e prudenza di Gioseppe, e con gli archi di molte ciglia celebravano molti le di lui virtù. Ambrosio Moncada, vescovo d’Urgel, fù desideroso farne l’esperienza. L’elesse suo Vicario Generale, e Giudice supremo. Hebbe anche l’ufficio di Rettore di Trem, e suoi sessanta castelli, e di Visitatore Generale ne’ monti Pirinei. Con quanta cura, e dilegenza havesse essercitato tal’ufficio, è piu facile ad argomentar dalle sue virtù, chè à descriversi dalla penna d’un altro. Fù tal Vicario, che un Vescovo non sarebbe stato migliore. Non contento d’essortare il popolo colle parole solamente, aggiugeva del continouo il proprio essempio. Vedevasi sù que’ monti Pirinei quasi christiano Prometeo con fiaccole di fuoco appresso dal cielo animare le statue di fango degli scostumati suoi sudditi. Quanti poveri vestì! Quanti affamati ristorò! Quanti cattivi habiti, quante lascivie, quante usure sbandeggió! Tolse all’inferno infiniti sudditi, ne rese molti al cielo. Tolse alle mense de’ ricchi la superfluità, per rendere il necessario a’ poveri. Rese agli Altari le cerimonie, e tolsele a’ cortigiani. Fè ritornare al dovuto culto le chiese, alle chiese gli huomini, agli huomini la divotione. Quanto sudò per far gelare ne’ cuori di quella gente il fuoco delle disonestà! Quanto gelò per riscaldargli d’amor divino! Quanta fù la sua patienza nell’ammaestrar gl’ignoranti! Quanto il fervore nell’accender i tepidi! Quanto il zelo nel correggere i discoli! Quanta la tenerezza in compatire gli afflitti! Restituì all’indisciplinato clero il suo primo splendore, ma quante tenebre di rancore cagiono ne’ petti di chi per vedersi dissimile ne’ costumi, l’odiava!

Passò evidente pericolo di morte, mentre procurava di restituirgli alla vita. Usando simili atti di pietà, trovò molti, che contro di lui s’incrudelirono, iguali, come che amavano i vitii, odiavano colui che l’essortava à lasciarli. Non potevan forse più vedere nell arme di Gioseppe quel cane, che, vegliando di notte, e di giorno alla custodia delle sue pecorelle, persequitava i lupi. Stimavano apparenze, et ipocrisie le sue vere, e reali virtù. Dicevan, che i suoi digiuni havevan fame di gloria terrena; i suoi sospiri cercavano aura popolare; le sue limosine compravano le lodi da’ poveri. Ma la verità, che alle volte si vergogna d’uscire in publico, perche và ignuda, alla fine non può stare lunga pezza nascosta. Conosciutto da tutti il suo santo zelo, si cambiarono gli odii in amore, gli sdegni in affetti, i disprezzi in istima. Fù questo si bene un offender maggiormente quel generoso cuore di Gioseppe, che all’hora stimavase sormontato nell’auge delle contentezze quando si vedeva maltrattato, e vilipeso.

Ma non vorrei, che apprendesse taluno, non haver anche cuore d’inoltrarsi frà lo strepito dell’armei, chi fù visto sino adesso sacrificare alla pietà, et alta religione. Non s’abbaglia nello splendor delle spade chi professa servitù à quel Dio, che tanto gode del titolo di Signore degli esserciti. Frà lo strepitar de’ tamburri fà tal volta sentire le sue voci la religione; e lo sventolar delle belliche bandiere fà zefiro soave agli animi virtuosi. S’erano in maniera radicati gli odii ne’ cuori di due delle più nobili famiglie di Barcellona, che si temeva di giorno in giorno l’esterminio della maggior parte de’ cittadini. Furono trà esse cagionati gl’incedii dal rapimento d’una donzella, che stimata Elena nella belleza, non poteva, essendo rapita, esser d’altro cagione, che di rouine. Non si estinguono così tosto i fuochi accesi dalle Veneri, che hanno per mariti i Volcani, Dii dell’istesso fuoco, e per esser amate da Marte, ché altro possono cagionare, che guerre continoue? S’erano già accapate ambi le parti, e con l’aderenze havevano formati esserciti intieri. Corrono le disfide; s’attende comunemente l’arringo; ne può trovarse riparo à trattenere gl’impeti degli animi già alterati. O quanti s’adoprano per serenare que’ cuori, da quali altro non poteva sperarsi che pioggia di sangue, ma in vano. Quanti s’affatigano per tranquillare quelle tempeste, che intorbidando l’inteletto degli accampati minacianno naufragii di vita, di robba, di riputatione; ma indarno. Giunge l’avviso in Urgel, onde quel sacro Pastore, giudicando sua l’incumbenza di ridurre nel pristino state di pace quelle pecorelle, che con istrana metamorfosi in tanti loupi si erano trasformate, destina a tale impresa Gioseppe.

S’affretta egli stimolato dagl’incentivi della sua carità, e per poter più presto arrivare, sopra un veloce destriero inerme frà gli armati s’invia. Qui sì, che senza favoloso ingrandimento videsi quasi di nuovo entrare in campo quel magnanimo sacerdote, che appresso al Nonnio pugnabat stimulatore animo, telum habens os impetuosum, verbum gladium, hastam vocem. Con una maravigliosa facondia appresa nelle scuole della Pietà, hor all’una, hor all’altra parte, favella. Rimprovera, ma con dolcezza; prega ma con rigore; lusinga, ma senza inganno; in fine tanto fà, tanto dice, che in un subito si sbandiscono da que’ cuori gli sdegni, si discacciano gli odii, si quietano i furori, et in mezzo di quelle campagne, dove s’inarboravano haste di guerra, si vedono germogliare olivi di pace. Et acciò che nè gli uni, ne gli altri per accidenti di nascoste scintille si riaccenessero disdegno, e si distaccassero le volontà, stringe col vincolo del matrimonio, e rende cor unum, et animam unam quelli, che poco dinanzi volevano ognuno farsi mille. Potentissime parole che, appena uscite dalla bocca di Gioseppe entrasse nelle più intime parti de’ cuori di tanti armati. Parole no, ma saette, che dall’arco di quelle pietose labbra scoccate, ferendo tanti sdegnati, lo sdegno solo uccideste. Saette no, ma fulmini, che dall’accesa nube di quel caritativo petto scoppiando, mentre ne’ mari procellosi d’animi tanto alterati cadete, fate nascere le parole finissime della pace; veramente uniones, perche con vincolo indissolubile gli havete legati.

Fù tanto grande la carità di Gioseppe, che pareva esser veramente nato per giovare agli altri. Instituí una compagnia, e le diè per obligo lo maritar quelle giovani, che astrette dalla povertà, non potessero in altra maniera lecitamente procacciarsi la dote. Ne fermossi qui. Eresse con quella somma di denari, che gli erano provenienti dall’entrate del suo governo, un Monte di Pietà, che ne’ mesi di Gennaro, e Febraro ogni anno dasse una certa quantità notabile di grano a’ poveri di quelle terre. Non è questo il luoco di ammutolir per lo stupore? Sono forse necessarie più chiare dimostrationi à provar, che Gioseppe sia stato la Carità istessa? Impoveriscono gli altri i sudditi per arrichir se stessi; questo impoverisce se stesso per arrichire i sudditi. Si sarebbe per lo stupore, ammirando l’eccesiva carità di Gioseppe, impallidito l’oro istesso, se di sua natura non fusse di tal colore. Fù favola che Giove si convertisse in pioggia d’oro; fù historia, che Gioseppe lo facesse piover sù le mani de’ bisognosi. Poteva l’età del ferro lasciar l’antico suo nome, se havesse havuto occhi per rimirare, orecchi per sentir tanti poveri, che commendavano la carità di Gioseppe. Non haverebbe mai ricevuto nè meno un danaro, se non havesse havuto i poveri, à quali potesse dispensarlo. Era avaro seco stesso, per esser prodigo con gli altri. O quante volte per cibare i bisognosi sostenne gli incommodi della fame! Havresti detto, che Gioseppe era il povero, se l’havessi veduto con tanta diligenza cercare i poveri per souvenirgli. Cercava con maggior cura à chi dare, che i poveri istessi da chi ricevere. Era dunque il suo cuore nelle mani de’ poveri, perche in queste si ritrovava il suo tesoro; dove queste l’habbiano portato, inferiscalo chi legge.

Da Urgel si partì per Roma; dirò per allontanarsi dagli applausi, che s’haveva destati per la Spagna; ò pure per ricever sul Tarpeo la palma devuta alle sue virtù! E perche non esponi, ò Roma, all’arrivo di questi que’ tuoi trionfali apparati, co’ quali solevi ricevere i Scipioni, i Pompei, et i Cesari? Forse i trionfi, che Gioseppe hà riportato del Mondo, del Demonio, e del Senso, non superano di gran lunga i trionfi di quelli? Qual titolo di vincitore poteva darsi a coloro, che schiavi delle proprie passioni, mentre vedevasi trionfanti per le sue strade, all’hora venivano e dal lusso, e dalla vanità magiormente trionfati? Le corone istesse d’oro, delle quali tanto si pregiavano, non eran forse tante catene, che legando loro le teste, si facevan conoscere per ischiavi dell’oro istesso?

Giunto in Roma, l’eminentissimo Cardinal Marc’Antonio Colonna volle prenderlo per su Teologo. Quale prodigi havesse operato su questa Colonna il nostro stilita, non si può à bastanza raccontare, perche anche doppo molto lunghi racconti, si trova il plus ultra. Viveva nella corte; ma il suo viver non era da cortagiano. L’aura d’honore che stimasi l’aria, la quale qui si respira, (direi per più chiareza: fuori di cui altr’aria quivi non si respira) trovò chiuso il varco in quel cuore, che nudriva solamente ambitione di non ricevere honori. Le voci lusinghiere di questa sirena trovarono un Ulisse, che per non fare un naufragio infelicissimo, otturossi prudentemente gli orecchi (si chiudeva gli orecchi dell’anima colla cera della virtù). Insomma la Corte, che ogni cosa hà corta, tolta ne solamente la speranza, mai non potè giungere ai pensieri di Gioseppe, perche erano tanto lunghi, che arrivavano sino alle stelle. Ma che? O prodigi maravigliosi dell’humiltà! Avanzosi tant’oltre la stima di quel Cardinale verso la persona di Gioseppe, che proibì al suo Nipote Prencipe l’uscita di casa, se prima da lui non havesse ricevuto assieme colla licenza la benedizione.

Fù uno trà i primi che fondassero l’Archiconfraternità delle Sacre Stimmate. Non poteva con argomento più evidente mostrar ciò che conservava rinchiuso ne’ più initimi gabinetti del suo cuore. Era tuto impiagato d’amor divino, e cercava di rivoltarse frà le ferite. Divenuto Argo dell’historie andava sempre inventando maniere d’approfitarsi nell’opere della carità. Amore non conosce otii, e la virtù si pregia più del titolo di prattica , che di speculativa.

Annouerossi parimente frà i Fondatori Della Compagnia de’ S.S. Apostoli; e per lo spatio di sette, e più anni tenne per suo continouo sollazzo l’occuparsi nelle uscite degl’infermi. Se egli per guadagnar più facilmente l’anime s’addossasse anche l’aiuto de’ corpi, dicanlo tanti infermi nell’assistenza de’ qualli consumava le notti intiere; parlino i pericoli, che incorse in sevirli; favellino i dispendii fatti in reficiarli. Giudicava proprie l’altrui tribulationi. Vedivase sospirar con gli afflitti, lagrimar con gli addolorati, languir coi moribondi. Se taluno veniva dall’angoscie della febre travagliatto, il travaglio era buona parte di Gioseppe; se la sete diseccava loro le viscere, tormentava quelle di Gioseppe. Gli amarori de’ cibi medicinali amareggiavano, benche posti in boca altrui, l’istessa bocca di Gioseppe. Ma a ché più dimoro nel numerar la pietà di costui, se tutta la sua vita fù una continoua pietà? La carità è virtù, che non ha corpo, ma se mai lo prendesse per viver con esso in terra, non operarebbe, che da Gioseppe.

Insegnava la doctrina Christiana, della quale fù piu volte Visitatore, e v’hebbe la prefettura, ma non volle accettarla: così grande fù l’humiltà dell’anima sua!

Ma non attendeva tanto all’aiuto del prossimo, che si scordasse di se medessimo. Visitava avanti il levar del sole quasi ogni giorno à piede le sette Chiese in una delle quali era solito celebrare il santo sacrificio della Messa. Il digiunare ogni giorno, e’ il più delle volte altro no prender, chè semplice pane, et acqua sola, e con misura assai scarsa, erano a lui delitie molto ordinarie. Implacabile, e fiero contro l’istesso suo corpo si dimostrava, stringendosi con ferrate catene i fianchi, e con aspro cilicio ricoprendosi le membra. Così non dava occasione alla carne di rebellarsi, e di prefiggergli un altra legge ripugnante a quella dello Spirito. Rendeva con molte battute così armoniosi, e consonanti alla pietà i suoi sensi, che ni una dissonanza d’affetto mondano sentivasi mai frà di loro.

Non contento di pascer l’anima per mezo degli occhi, colla lettura de’ libri spirituali, tanto a se cara, che poscia passò in Regola della sua Religione, volle ancora radoppiarle il cibo per la via degli orecchi. Era solito ascoltar tanto volentieri la parola divina dalle bocche de’ Predicatori Evangelici, che ni’un altra cosa l’haverebbe da ciò distacatto. Portato solamente dal desiderio del suo profitto, e non dalla vana curiosità de’ concetti, procurava d’uscir sempre colla notatione di qualche utile documento per metterlo subito in pratica. Imparino da Gioseppe coloro, che desiosi di sentir più il Predicatore, ché la Predica, lasciando di ben fare, s’appligliano solamente al ben dire. Miseri! Che portando in Chiesa il vitio della curiosità sono costretti a tornare in casa senza el profitto della Chiesa. Nelle prediche ognuno dee andar per correger sè stesso, non il Predicatore.

Non passava dì, che non si ritirasse nella Chiesa de’ S.S. Apostoli, dove avanti l’altare del Santissimo Sacramento per lo spatio di più hore scioglieva libere le briglie agli affetuosi sentimenti del suo cuore. Erano quivi intensi i suoi atti, frequenti le meditationi, divoti gli affetti, ferventi i sospiri.

Menava in veglie una gran parte della notte, e molte volte per conceder la necessaria quiete alla natura, giaceva sù la nuda terra. Forse per avvezzarsi à restituirle quel ch’era suo, e se il sonno è come disse un savio, imagine della morte, per destarsi poi con questa riflessione d’haver rappresentato la sembianza d’un cadavere. Non si paragoni à così fatto sentimento di Gioseppe il sentimento di quel Rè, che disse, non doversi da chi che sia prender à disdegno d’assentarsi tal volta sulla terra, sotto di cui hà di sepellirsi per tanti secoli. È nell’ attione così dell’uno come dell’altro il conoscimento della nostra caducità, ma la maniera di figurarsela nel primo è più energetica alla virtù, perche più spaventosa all’imaginatione.

Costumava levarsi a meza notte per recitare i matutino; e sapendo, che all’ora risorge il vigor dell’animo, quando cade l’orgoglio del senso, e, como era solito dire il grande Antonio, che infermandosi l’huomo di fuora, si fortifica di dentro, non lasciava maniera nesuna di mortificare il suo corpo, e trattarlo come ribelle, quantunque lo conoscesse pur troppo fedele, et ubidiente à i dettami della ragione.

Con l’occasione della visita de’ poveri infermi conobbe, che molti figlioli andavano como vagando per Roma così declinando della dritta via della virtù nei sentieri storti de’ vitii per l’impotenza de’ loro parenti a mantenergli nelle scuole pagate, e per non ammettersi dagli altri, c’hanno per istituto il non insegnare alcuno, che non sia introdotto ne’ primi rudimenti della Grammatica. Mosso da una più che humana compassione cominciò à rivolger seco stesso le maniere più opportune à soccorrergli. Si rallegrava vedendo, che i figliuoli de’ ricchi trovavano molti, che l’instruivano à la pietà, et alle lettere, ma s’affligeva oltre modo in veder, che gli altri de poveri erano abbandonati. Non poteva, considerando il bisogno d’un età così tenera, non intenerirsi quel cuore, che, per cosí dire, era tutto impastato de carità, e l’intonava bene spesso quel doloroso lamento quaesierunt parvuli panem, et non erat, qui frangeret eis; e tormentato dall’ansietà di remediarvi non si diè pace, sinche, dopo lunghe, e ferventi orationi, non gl’ispirò Iddio il santo, e lodevole Istituto delle Scuole Pie.

Sentì l’impulso Gioseppe dell’ispiratione; s’allegrò di riceverlo, e coll’esibitione di quanto haveva precipitò le dimore per esseguirlo. La tardanza non merita sempre il nome de prudenza. Si sffogano le buone ispirationi, quando lunga pezza si tengono riservate. La Terra stà sempre ferma; il Cielo sempre si muove; e si questo è vero, è ragionevole ancora, che l`huomo alle suggestione terrene, s’induri per resistere, alle celesti s’arrenda per adempirle. Non si debbono trascurare i momenti, se da quelli pende l’utile d’una eternità.

Approvano molti con impareggiabil lode un opera così pia, lodano il zelo, et ammirano il disegno di Gioseppe. L’istesso Vicario di Christo Clemente Ottavo desideroso degli avanzamenti dell’Istituto già cominciato, ordina, che si paghino à Gioseppe ogn’anno duocento scudi d’oro camerali, animandolo à proseguire colle seguenti parole: “Molto ci rallegriamo, ch´habbiate voi comminciata quest’opera delle Scuole Pie. Havevamo ancor noi pensato di principiarla, ma la guerra d’Ungaria ci occupò tanto, che non venne all’essecutione. Dio ha chiamato voi: ne sentiamo gusto grande, e vogliamo venire a visitarvi. In tanto sappiate dirci i vostri bisogni, per soccorrervi”. Così disse, ma non potendo poi portarse alla visita promessa, delegola à due Cardinali, che furono il Baronio, e l’Antoniano. Encomiarono questi nella relatione, che fecero al Pontefice in maniera l’istituto di Gioseppe, che nell istesso tempo ordinò, ripieno di giubilo, e di contento non ordinario, che si facesse la minuta del Breve per dichiararla Congregatione, ma fù prevenuto dalla morte. Hor chi non vede, che la pietà di Gioseppe habbia havuto occhi lincei, mentre giunse à penetrar, quel che stava rinserrato nell’altrui mente? Mancarono, è vero, le Corone Pontificie alla sua testa, ma non già mancarono i pensieri degni de la testa d’un Pontefice.

Cominciossi ad essercitar l’Istituto delle Scuole Pie coll’aiuto d’alcuni pochi compagni nella Parocchia di S. Dorotea in Trastevere. Ma perche le stanze, che quivi si trovanno, anche coll’aggiunta d’altre case vicine riuscivano molto anguste alla moltitudine degli scolari, che vi concorrevano, si trasferirono le scuole in altro luogo assai più capace, dove mentre stava accomodando un campanello per li segni della scuola, fece da quell’alto luogo una spaventosa caduta. Prevedeva forse il Demonio i sublimi pregressi di quella casa, e per impedirgli procurò le cascate. Doveva il suono di quella campana chiamare i figli di Roma per armargli contro Babelle, onde pauroso dell’eccidio procurò, ma in vano, di trastornarlo. T’inganni ò maligno: Amore è cieco, non muto. Se tace questa campana, la carità di Gioseppe non tace. Mentre t’affatighi nell’impedimento d’un suono, fai che rimbombino altre mille per celebrar le glorie di Gioseppe. Non sonarebbe così bene per le bocche altrui la fama di quest’attione, s’havessi all’hora lasciatto sonar quel campanello.

Attrasse la novità, e l’importanza di quest’Istituto gli occhi di molti con forza anche di abbagliarli. Onde considerati i nobili progressi, che si facevano per Roma sì nelle Lettere, come nello Spirito, Paolo V di moto proprio la dichiarò Congregatione di Voti semplici, e Gregorio XV Religione con Voti Solenni.

Conobbe il primo di questi Pontefici, che doveva il nuovo Capitano di S. Chiesa entrar in battaglia contro il Diavolo, e per renderlo a lui spaventoso gli mandò per mezo del Cardinal Giustiniano l`habito della sua Religione. Havrei detto, che venne per tal guisa à crearlo Cavaliere della fede, ma forse non sarebbe la novità del vocabolo piaciuta à coloro, che non leggono l’altrui scritture, salvo per censurarle. In ogni modo il termine non dovrebbe, se non m’inganno, stimarsi improprio. Non è Cavaliere di Christo solamente chi cinge la spada per la sua Religione, ma chi ancora per la medesima brandisse la Croce. Hà debito l’uno di difenderla, l’altro di propagarla. Al primo costuma di ributtar gli assalti degl’infedeli, il secondo d’assaltargli; usa quegli la forza del braccio, questi degli argomenti; ese colà si richiede coraggio di leone, qui bisogna mansuetudine d’agnello. Potrebbono multiplicarsi in maggior numero le similitudini, e contraporre alla bizarria, al zelo della riputatione, et alle gale degli ordini secolari, l’humiltà, il disprezzo di sè stesso, e la ruvidezza degli habiti, che debbono usarsi dagli Ecclesiastici, ma la penna desiderosa d’affretarsi alle rimanenti attioni di Gioseppe, le traslacia, e quì nota, che furono gli habiti mandati à lui, conformi al suo genio, cioè, così ispidi, che gli sevirano non men di vesti che di cilicio.

S’espone alla rigida osservanza de’ Voti Religiosi, uno de’ quali fù la somma Povertà. Non volle con altro prezzo comprare il Regno de’ Cieli, che quantumque superi gli altri di valore si vende però à costo più vile di tutti. Si disfece de tutto ciò, che non poteva non cedere al tempo, commutandolo in altri beni, che da chi che sia più non gli potevano esser tolti. Nella mensa, nella cella, nella persona non ammise mai cosa, che non spirase una estrema mendicità. Le provisioni per molt’anni della sua Religiosa Famiglia erano le quotidiane limosine; el letto la paglia; i tratenimenti del giorno le scuole, nelle quali s’ammaestrava la gioventù; le camere una buca; la supelletile un solo scabello con un imagine di carta.

Furono le sue vestimenta di color nero; nel resto tutto era candore, e purità. Volle con tal colore, in dissomigliante maniera dall’antica costumanza, dinotare le sue felicità; e vestito di nera gramaglia celebrava i funerali alle mondane grandezze. Circondato da questa notte, altra luce non voleva mirare, salvo quella del cielo. Cinsesi sopra l’istesse vesti d’un laccio dell’istesso colore, per non lasciar sciolto quel sacco, nel quale haveva rinchiuso sì gran tesori di povertà. Gli oferiscono buone somme di danari per amplificar la fabrica del suo convento; ma a tal liberalità corrispondè con una molto avara scarzezza di non riceverli. La moneta, che è di figura rotonda, è troppo sproportionata al cuore di Gioseppe, ch’è triangolare. La luce dell’oro anche da i ciechi è cercata, e del suono di esso anco i sordi godono; ma Gioseppe, c’haveva altrove rivolto, e la vista, e l’udito, nè lo vide, nè lo sentì mai con gusto. Quella borsa, c’haveva per arma, doveva empirsi d’altra moneta, chè di questa coll’impronto della terra. Per conservarsi tutto d’oro hà petto di ferro in disprezzarlo. Gode di povere habitationi in terra per haverle poi magnifiche, e sontuose in Cielo. Dee si dar qualche proportione frà il loco, et il locato; desiderando perciò humili i suoi figliuoli, humili ancora desiderò le loro habitationi. Ricusò le pareti abbelite d’artifciosi colori, perche amico della purità, volle ancora nell istesse mura la bianchezza.

Conservò sempre intiera la Castità. L’istesso colore della sua vestimenta era chiara mostra d’esser già estinti in lui i carboni della concupiscenza. Dimostrossi come insensato ad ogni sensualità. Quei lombi, che bene spesso erano circondati da ferrate catene, tenevano como schiava di catena la carne. Non potevano in conto veruno entrar nel cuore di Gioseppe i lascivi pensieri; perche, caminando egli sempre con gli occhi fissi modestamente in terra, trovavano chiuse le porte. Faceva assai spesso tempestar sù gli omeri rigorose percosse di duri funi, afinche intemorita non ardimentasse accostarsi la concupiscenza, ove tirata sù quella corda non poteva ricever, chè battiture.

Fà voto d’essata obbidienza, et essatamente ubbidisce. Era il primo in mettere in pratica quel, che speculativamente a’ suoi haveva insegnato. Vedevasi confermar coll’essempio tutto ciò, che proponeva colle parole. L’esser Superiore in Gioseppe non era punto differente dall’esser suddito. Sentivasi così benignamente comandare, che i comande passavano in suppliche. Correggeva sí dolcemente, che s’il peccato da se stesso non fusse diforme et abominevole, molti haveriano amato di peccare per esser da lui corretti. Credono molti Superiori di fuggir con grave, e farisaico sopraciglio il disprezzo de’ sudditi, et incontrano l’odio. Credono rendersi maestosi, e diventano ridicoli. Per mostrarsi degni del grado, si scuprono immeritevoli. Soggiacciono a queste colpe i genii di poco talento, che non empiendo colla virtù l’ampiezza della carica, procurano di farlo coll’apparenza; et allora maggiormente trascorrono nelle sciempiezze quando succedono a predecessore di merito. Vorrebbono pareggiarlo, et infelicemente gonfiandosi di vanità, fanno conoscere, che non è senza misterio la favola della rana, a cui si disse non si te ruperis. La gravità di chi sovrasta hà da esser placida, e non superba, efficace non violenta, imperiosa, ma dolce; et in somma a bisogna far il Superiore, non contrafarlo, per non rappresentare un personaggio non da chiostro, ma da teatro.

Si lega con voto d’ammaestrar quella gioventù, che volontariamente haveva bramato d’ammaestrare. La Religone è una nuova Arianna, che per liberare i suoi Tesei dall’horrendo Minotauro de’ vitii, porge loro il filo delle regole, e con quell’istessa gli lega.

Rifiuta nell’istessa maniera le dignità non solo dentro la sua Religione, ma anche fuora di essa. Chi è virtuoso dee solamente contentarsi di meritarle, e non curarsi di conseguirla. Catone comandò, che non se gli erigesero statue, et à quelli, che curiosi gli dimandavano la cagione, soleva rispondere: “Malo, ut posteri percontentur, cur Catoni posite non sint statuae, quam cur positae”. È portato il cuore di ciascuno da naturale instinto ad aspirare agli honori; in Gioseppe si bene una non intesa humiltà, un basso sentimento delle grandezze terrene gelò nel cuore passione tanto infiammata. Il desiderio della gloria è una perpetua passione; l’età, che indebolisce tutte l’altre, la fortifica; e pare, che questo male non trovi rimedio, che nella morte. Mario anche nelle carceri aspirava al Consolato, e tra i ferri istessi meditava grandezze. Le Corone del Mondo sono lavori di magica ambizione, che à bello studio le fabrica in cerchi, perche le teste de’ Monarchi frà quei circoli pretiosi sentano incantarsi e nella prudenza, e nel senso. Gioseppe le rifiuta per voto, e con santa ambitione ad altre maggiori drizza il pensiero. Stima molto l’esser niente stimato. Desidera vivendo esser da tutti vilipeso, per divenir pretioso doppo morte. Ambisce non esser conosciutto dagli huomini, per esser solamente palese a Dio.

Oltre i richissimi Canonicati, che più volte ricusò, nè meno volle accetar due principali Vescovati di Spagna, offertigli da D. Francesco di Castro all’hora Ambasciatore del Re Catolico presso à Paolo V. E l’istesso Cardinal Montalto lo conobbe alienissimo da ricever la dignità, alla quale pensava promoverlo l’istesso Pontefice, benche l’asserisse delle maggiori, che sonno nella Chiesa di Dio. In fine rifiutò à viva forza qualsivoglia titolo illustre nella terra, per haverlo più chiaro, e risplendente nel Cielo, sapendo ben egli, che non mai spunta sull’altezze mondane, siano ò secolari, ò ecclesiastiche, giorno così chiaro, che non vi saetti l’invidia, non vi tuoni la maledicenza, non vi gradini il sospetto.

Ritirosi per iscriver le Costitutioni, in conformità delle quali dovesse viver la sua Religione. Ma prima di prender la penna colla mano, volò colle meditationi, e coll’orationi continoue nel Cielo; prima d’aprire il foglio per vergare sù quel candore i caratteri, aprì con essami rigoroso il candore della sua coscienza; primo d’intinger di nero liquore la sua penna, dipinse di sangue con percosse crudeli la sua carne. Per non esser poscia digiuno nelle Regole, c`haveva da componere, digiunò prima in pane et acqua per lo spatio di molti giorni. Vedevasi da una parte la penna, dall’altra la sferza; se la mano scriveva caratteri nel foglio, l’occhio grondava lacrime sopra di quello.

Videsi in pochissimo spatio di tempo germogliare in diverse parti del mondo la novella pianta di questa Religione. S’introdusse nelle Provincie della Liguria, si dilatò nel Regno di Napoli, s’amplificò nella Toscana, sparsesi per la Lombrdia, si distese nella Marca, nell’Umbria, nella Sabina. Penetrò la Sardegna, giunse nella Boemia, arrivò nella Moravia, passò la Polonia. Molti Principi con replicate Lettere dimandavono questo Santo Istituto; molte Repubbliche lo desideravano; i più gran Monarchi del Mondo lo chiedevano con grand’istanza ne’ Regni loro; tanto che, non havendo soggetti da supplire, fù constretto questo nuovo Fondatore à supplicare Urbano VIII sommo Pontefice, che gli proibisse per quel tempo di pigliar più luoghi.

Era meraviglia il vederlo tutto intento al guadagno dell’anime, et adoperarsi con tal fervore di spirito per la salute de’ prossimi, che niente meno il più divoto Anacoreta sarebbesi adoperato per la sua. Parlate voi, poveri figliuoli Romani, quante volte Gioseppe insegnadovi le prime lettere, procurava nel medesimo tempo insegnarvi il dritto sentiero del Cielo! Dillo tu Gioventù di Roma, quante fiate Gioseppe essortandote alla rinuncia de’ disonesti piaceri, ti persuase con efficacia la purità della vita! Non si vide forse per opera di Gioseppe introdotto l’uso frequente de’ Sacramenti, l’insegnamento del Catechismo, gli essercitii dell’Evangelica predicatione, potentissimo stromenti per abbatere il mondo, per distrugger la carne, per annihilare l’inferno?

Essercitava l’ufficio di Superiore, e di Generale nella sua Religione con tanta prudenza, che tutti ambivano essergli sudditi. Un non so che di più, che degli altri si desidera da chi hà un non sò che più degli altri. Non tutti quelli, che sono buoni sudditi, riescono ancora buoni superiori. L’altezza dell’ufficio fà veder molti difetti, che prima nel basso non si vedevano. Il capo di Minerva scolpito da Fidia pareva sotto gli occhi de’ giudici più tosto un abozatura di testa, chè una testa; ma posto nell’altezza sua proporcionatta faceva aparenza bellissima; come per lo contrario quella d’Almene, che prima nel basso pareva bellissima, sollevata sembrava apunto una palla mal ritonda. Non si dee la Superiorità conceder à tutti, perche tutti l’appetiscano. Sarebbe mostruoso quel corpo, come discorre in un suo sermone il Santo di Siria, al quale i piedi si trasformassero in teste. S’accetano nelle Religioni soggeti di vario grado e sapere, ma per diverso fine. Si contenti ciascheduno della sua vocatione, ma se vi sarà chi senza merito procuri d’avanzarsi, si rigetti con discretezza, se basta, se non con mortificationi. Il pessimo de’ comandi, è l’Anarchia; corrompe tutti gli ordini, e converte Gierusaleme in Babelle.

Non atribuiva tanto à se stesso, che negli affari più rilevanti della sua Religione non cercasse, e non apprezzasse il consiglio degli altri. O quanto è difficile questa parte in un Superiore! È prudenza il non confidar sempre di sè medessimo, ma imprudenza l’ammeter nelle consulte indefferentemente ciascheduno de’ sudditi. Oh non sono ancor essi membri del’istesso corpo? È vero; ma non tutti, che posson bere il calice della Religione posson anche seder nella destra, e nella sinistra di chi la governa. Servano d’essempio i figli di Zebedeo, che se ben Apostoli, furono esclusi dalla domanda, che forse ad istanza loro, como credono alcuni, fù proposta dalla madre. Ma i consigli de’ buoni sogliono tal volta riuscir migliori, chè gli altri de savii. Chi lo niega? Ma quante volte ancora ciò che pare bontà, non è bontà, è malitia, et ipocrisia? Chi si vanta di poter discerner queste da quella senza una lunga osservation dell’attioni di ciascheduno, guardisi di non presumere il titolo di Dio, che solo è chiamato dalla scrittura scrutatore de i cuori. In questo differiscono la bontà, et il sapere, in quanto al concetto degli altri, che l’ultimo cade sotto l’evidenza sempre certa e la prima sotto la probabilità, il più delle volte fallace. Ma chè diremo di coloro, che mostrano, benche privi di lettere, talento da confidarvisi? L’ammettano; ma si rifletta prima non solo à ciò che sogliono usarlo dentro la Religione, ma come ancora l’usaron fuori di essa. Se gli habiti dell’anima, come vollè un saggio, l’accompagnano di là dal sepolcro fin ne’ campi Elisii, perche non possono accompagnarla di quà dalla morte dentro i chiostri? Perche nessuno si fà Religioso, che non habbia fine di spogliarsi gli habiti cattivi. Va bene, et io così credo di tutti. In ogni modo stimarei, che maggiormente s’approfittasse ne’ monasteri un che nel secolo fù sicario, d’un altro, che servì la Corte d’algozeno. Al primo non può la gravezza delle sue colpe non mostrarsi continouamente spaventosa, e che però non le detesti, e non l’abborisca; ma gli errori del secondo, per haver contribuito, ancor che per altro fine, alla giustitia, possono in qualche modo inorpellarsi a lui medesimo, e per questo non è difficile à credere, che lusingato dall’apparenza, ò conservi ancora il primo genio, o lo ripigli, senza scrupolo d’esser reo. Due furono i ladroni, che morirono insieme con nostro Redentore, e grande il numero della sbirraglia, che v’intervenne, e pure uno di quelli, e nessuno di questi leggiamo, che si salvasse. Chè dunque hà da farsi dal Superiore? Servirsi del consiglio di chi hà, e con sua lode, governato prima di lui, et, avalendonsi d’altri, di sceglier coloro che non si muovono dalla cella, dove l’ispirationi del Cielo, a chi è paronima, si recevono più profondamente. Ma si guardi dà quelli, che frequentano le corti, e che vagano per la città. Sono costoro più secolari, che religiosi, e portano non decoro, ma disprezzo all’habito, che gli cuopre. Così è certamente, ma per non vagar ancor io più lungamente, concludo che Gioseppe fù due volte savio, perche seppe da sè medesimo, e seppe consigliarsi con altri. Sacrificò al ben publico della sua Religione tutte le sue private commodità, et haveva sempre una meravigliosa prontezza ad udir le necessità de’ suoi sudditi per soccorrerli poscia coll’opportunità de’ remedii. Chi governa, dee ad usanza di Agesilao non viver più a se, ma tutto agli altri. Il superiore non è superiore, se non rispetto a’ sudditi, dunque tutte le sue occupationi debbono essere intorno a questi. O quanti hanno il difetto di quel Giove de’ Greci, che per non perder la propria felicità nell udir le querele de’ miseri, fù finto senza orecchie! Colui che non vuol sentire l’altrui infermità, lasci d’esser Medico. Non sarebbe buon Giudice chi non volesse udir i lamenti, e le pretensioni di tutti. Ma come s’hanno da sentire? Vi sono alcuni, che, appena intese le proposte de’ sudditi, cominciano subito le proprie risposte, con una negativa autorevole; e se per avventura concedon loro qualche cosa, lo fanno così bruscamente, e con sì mala gratia, che nè meno chi la riceve gliene resta con obligo. È modo questo di governar nella Religione, ò di comandar nella galera? La regla di governare attribuita da Plutarco ad Agesicle, della quale deesi anche servire ogni buon superiore, è chè sic imperet suis, quem ad modum pater liberis. Quel religioso, che con humiltà tèspone i suoi bisogni deesi da te trattar, come figlio spirituale, non come suddito, e se come suddito, almeno non come schiavo. Parla alcuno tanto imperiosamente, che non senza ragione lo potreste chiamare un Vespasiano de’ chiostri. Ogni giorno comanda in virtù di S. Obedienza. Giunto nella casa, alla quale e stato eletto superiore, in un giorno disfà tutto quel che hà fatto il suo antecessore, come se stimasse non poter acquistare autorità, e reputatione, se non toglie, ò diminuisce quella degli altri. Ad ogni minima cosa, che vede, vuol subbito applicare il castigo, e la riprensione. Questo è atto d’impacienza mascherata di zelo, e non effeto di caritativa virtù. Le mani, e la bocca non s’hanno da girare colla medesima ruota, che si muove l’occhio. S’hanno da veder i difetti dal superiore, ma non tutti in un subito, et indifferentemente castigare. Si mostra tal volta maggior passione in corregger gli altrui difetti, che non è il difetto medesimo, che si corregge. O quanto è facile fare il superiore, ma quanto difficile il saperlo fare! Hebbe gran ragione il Nazianzeno di dir che l’arte di governare est Ars Artium, e scientia scientiarum.

Haveva viscera di misericordia, e usava molta carità con quelli, che indeboliti ò dall’infermità, ò aggravati dal peso degli anni, non potevano batter la strada commune degli altri. E una somma ingiustitia il trattar tutti egualmente. Mai non si diè nome di giustitia al rigore. Incorrono troppo spesso in questo vitio quelli che sono di robusta complessione, perche non sapendo, chè cosa sia infirmità, accusano di poca osservanza, e di gran dilicatezza gli altri, che ne patiscono. Ma diranno costoro: “se non adoperassimo questo rigore, non si potrebbe goverare. Il timore è principio della sapienza. Gli Apostoli sono chiamati figli del Tuono. Nell’Arca appresso la Legge stava la verga. Non son tutti questi simboli, e figure della severità, e del rigore?” Questi tali al sicuro pretenderanno di saper governar meglio le loro Religione di quel che fà lo stesso Dio nel governo del mondo intero. Adopra egli lo spirito di soavità, e di dolcezza, e questi usano quello del rigore, e della severità. Christo pregato degli Apostoli à far iscendere dalle sfere celesti il fuoco per incenerire alcuni poco amorevoli delle Legge Evangelica, “non è questo”, rispose, “lo Spirito, che nella mia scuola vi hò insegnato; è vero, che son disceso dal Cielo in Terra per semianre incendii, veni ignem mittere in Terram, le fiamme però di quest’incendio debbono esser d’amore, non d’ira”; ma l’acutezza di queste ragioni non basta à penetrar la durezza loro. Sarebbe di mestier, che un altro superiore le governasse della maniera che si governa da loro. Se ciò succedesse ò como conoscerebbono subito, che non sanno governare!

La superbia, che è un vitio quasi indivisibile da grandi, mai potè avvicinarsi al cuore di Gioseppe. Non vi fù cosa, c’havesse più gagliardamente spinto il maggior Angelo del Cielo à peccar di superbia, che l’esser egli il maggiore. Gioseppe si bene, benche Generale della sua Religione, ammiravasi per Roma colle saccoccie in ispalla mendicar tozzi di pane, accompagnar gli scolari alle proprie case in tempi più fangosi, o più caldi; et in casa, ministrar bene spesso à tavola, scopar la casa, e le scuole, pulire i vasi, che la notte servivano agli infermi, andar in refettorio colle mani per terra carpone e più volte dimandar colle lacrime su gli occhi perdono agli stessi suoi sudditi. Perseverò sino al fine della sua vita con questo basso sentimento di sè stesso: mentre morendo, sentendosi toglier di testa il berettino da un suo affetionato, e divoto figluolo, “O” disse, “alla buon hora! M’aiutate à morire”.

Ma non diminuì punto con attioni si basse la stima, ch’altri di lui facevano; l’accrebbe. Gl’istessi Auditori della Rouota Romana, sotto la protettione de’ quali stà il collegio Nazareno, lasciato dal Cardinal Tonti a’ Padri delle Scuole Pie, volendo provederlo d’un rettore, che col buon essempio potesse virtuosamente allevar la Gioventù, confidati alla prudenza, e santità di Gioseppe, dimandarono à lui un suggetto de’ migliori della Religione per quell`honorato mestiere. Et egli nominò il P. Camillo di S. Girolamo. Nè deluse il buon figlio la speranza del padre, perche si portò di maniera nel suo governo, che fù stimato habile ad esser poscia eletto Generale di tutta la sua Religione. Anzi quel che è degno da notarsi, si come non fù mai a persona veruna secondo in riverire il suo vivente Fondatore, fù anche il primo che l’honorasse morto colle sue stampe.

Era la sua ritiratezza singolare. All’hora solamente usciva di casa, quando l’urgenza di qualche opera di carità, lo distacciava da essa. Chè diranno coloro, che caminando dalla mattina sino alla sera per le contrade della città non vogliono esser stimati inquieti, ne meno quando stano in continuo moto? Che spirito d’osservanza può mai essere in questi spiriti ambulatorii? Chi va sempre in giro, non può mai arrivare al centro della perfettione. Il caminar sempre per la città è officio delle corti, e della sbirraglia per tenere à freno i malfattori, non de’ Religiosi, che debono star nella cella, e pregar per essi. Uno, che professa vita regolare, non vada spiando quel che si fà fuori de’ chiostri, ma rinchiuso consideri se stesso, e s’emendi, ò diventi migliore.

Quanta fù la sua patienza nelle persecutioni, e ne’ travagli! Erano molte le nuvole della maledicenza, colle quali cercarono alcuni oscurar il candor delle sue virtù; molti gl’impeti per isnervare il maschio valore della sua costanza, spesse le calunnie per incolpare il zelo della sua giustitia; ma la sua patienza era un duro scoglio, ove rompevansi l’onde di qualsivoglia fiero disdegno, et una rupe immobile alle congiure degli aquiloni, mentre non solo sosteneva gli assalti con intrepidezza, ma convertiva gl’istessi dispregi in materia di trionfi. Non è bersaglio all’invidia chi non fù prima ricovero della gloria. I fulmini par, che habbiano costumanza naturale di cascar sopra i monti. Fù oppinione d’un personaggio eccelente, che Iddio legasse con vincolo indissolubile la virtù, e l’invidia. Si accommoda ben facilmente à sostener l’ingiurie presenti in questo mondo colui, che nudrisce speranza delle future felicità nell altro. Ignatio il Loiola in una sua infermità disse, che, si per qualche accidente la sua compagnia si distruggesse, in termine d’un quarto d’hora, che si retirasse a far oratione, tornarebbe all’usata sua allegrezza; et il nostro Gioseppe, vedendo pratticamente la sua Religione dilatata con tanto applauso per l’Universo bassarsi poscia, e quasi distruggersi, senza necessità veruna di ritiramento, si mantenne sempre con animo allegro.

Non fù mai povero di confidenza quel cuore, che fù sempre ricco di total rassegnatione nel voler divino. Un soldato, che tema d’esser vinto, è digià superato dalla propria credenza. Quantunque vedesse la sua Religione oppressa dalle persecutioni, non perciò perdè mai la speranza della sollevatione di essa: anzi soleva sempre dire a’ suoi: “lasciamo fare à Dio: egli prenderà cura della causa sua, e di noi”. Vedesi la certezza grande, c’haveva del glorioso risorgimento della sua Religione in più lettere scritte di suo proprio pugno al P. Gioseppe di S. Eustachio. Et in una vi sono queste parole: “Non si dia a creder V.R. che la nostra Religione, se ben hora par distrutta, non debba più risorgere, ma ben si più che mai ampliarsi coll’aiuto del Signore; e penso anco, che non debba passar molto. Che perciò conviene star fermi alla mortificatione, che Iddio ci manda, perche con essa vuol provar chi veramente lo serve per amore; e chi perseverarà, vedrà l’aiuto del Cielo sopra di sè.” In un altra: “Constantes estote, et videbitis auxiliun Dei super vos, et nunc sumus orantes pro vobis, ut non contristemini, sed in tribulatione magis elucescat virtus vestra”.

Fù molto rara la sua costanza; tanto che potevasi con una verità dir di lui mansit in ea vocatione, qua vocatus est. Diede il principio alle Scuole Pie, e volle anche in esse, benche con molti travagli vedere il suo fine. Chi non persevera nel primo proponimento, o non seppe scegliere, o non sà fermarsi nel bene; è l’uno segno d’imprudenza, l’altro di malitia. Pensi ogn’uno à quel che hà da comminciare; comminciato che hà, pensi di finirlo. Chi passa da una Religione ad un altra, indizio che s’è consumato inutilmente il tempo nella prima. Tutte le Religioni sono state fondate per separarci dal Mondo, dunque in tutte ci possiamo unir con Dio. Se in quella, che scieglesti son buoni Religiosi, hai tu occasione d’imitarli; se cattivi, di spronarli coll’essempio all’osservanza. Ma chè diremo di coloro, che usciti di una Religione vanno ad una altra, e poi di novo da questa ritornano alla prima? Che non furon buoni nè per l’una, nè per l’altra; perche se dalla prima uscirono per non haver potuto far bene, nella seconda forse non rimasero per haver fatto del male. Non si dee dar nome di Religioso, a chi non si ferma nella Religione, nella quale si è legato. S’escluda d’ogni superiorità l’incostanza di questa sorte. Un soldato, che in tempo di guerra fugga dall’essercito, si rende inabile alle cariche. Non può essortar mai con efficacia gli altri alla perseveranza il Religioso, che non seppe perseverar per sè stesso. Se porge qualche rimedio spirituale a’ suoi sudditi, difficilmente l’approvano, mentre nella persona dell’istesso non sortì l’effetto, che si promette; e se scuopre qualche infermità d’animo in alcuno, sente subito dirsi Medice, cura te ipsum.

Ma già è pervenuto il tempo, nel quale doppo lunghe fatighe dee farse lo soborso de’ premii; e doppo molti, e valerosi combatimenti succeder la gloria del trionfo. Viene assalito da una furiosa febre; et accioche se gli accrescessero i meriti, s’accomapgnò con dolori cosi grandi che sarebbono stati ad un altro intolerabili. Si gloriavano gli stoici d’esser apatisti, ma questo loro così vantarsi era, como fù credoto da molti, superbia, non virtù. Non vi è attione humana, benche lodevole, che meriti questo nome, se non si rivolge, e si termina in Dio; e però le virtù de’ gentili, che non si drizzavano à questo fine, erano difettose, e manchevoli. La scuola, dove le virtù sono veramente virtù, è la nostra de’ Christiani; e la vera Apatia s’impara non già nella Stoa, ma nel Calvario. In questa s’approfittò Gioseppe; et è certo, che si fusse mai per divino decreto caduto in man de’ Tiranni, haverebbe colla medesima costanza sostenuto i tormenti loro, che sostenne i dolori della sua infermità. Iddio, che non gli predestinò la corona del martirio, volle forse in tal maniera farglene provar un saggio, et è veri simile, anzi è vero, che lo gradisse al maggior segno. Potevano dunque i suoi tormenti chiamarsi tormenti d’Amor divino; onde non è maraviglia, che i medici non sapessero, nè conoscere il suo male, ne curarlo. Ma perche dò io nome di male a un bene cosi grande? E perche non mi conformo co’ sentimenti di lui, che se mai sciolse cantici di lode al Signore, all’hora s’ingegnò di moltiplicargli? Quella bocca amareggiata più volte dalle bevande medicinali sentivasi continouamente spargere concenti di soavità più che humana. Quella povera cameruccia, dove si giaceva, venne in un certo modo ad imparadisarsi fatta stanza di chi non proferiva parole, salvo di Cielo, e di Beati.

Raddoppiò la febbre per vintiquattro giorni i suoi parosismi, che tanto maggiormente affligevano Gioseppe, quanto che debole per la vecchiezza, et indebolito dalle penitenze già fatte, non haveva, fuorche il vigore dello Spirito, altre forze per contrastarvi. Havresti in ogni modo difficilmente conosciutolo per infermo, se non l’havesse per tale accusato la pallidezza del volto.

Gli affetuosi ringratiamenti, con che contracambiava l’amorevolezza de’ suoi figli, erano tanto più grandi, quanto minor concetto nudriva di meritarla. L’essortationi, che non si stancava di fare à quelli, che concorrevano a visitarlo, havevan cambiato la sua cella in chiesa, il suo letto in pergamo et ò quanto riuscirebbe utile, il travaglio di chi si disponesse à acoglierle!

Già con alternati moti il polso della mano à guisa di fatale horologio comminciava a sonare gli ultimi tocchi della vita, quando Gioseppe radoppiò l’allegrezze, moltiplicò gli affetti, e diede agli astanti espressive più chiare del suo giubilo. Non hà temenza di morte colui che vivendo stima sempre di morire. Chi per novanta due anni continoui s’apparechia à combattere, non si sbigotisce della zuffa. Un, che sprona con cilici il suo corpo per farlo sollecito verso il Cielo, s’allegra di vederlo frettolosamente caminare. Ma fermati, Gioseppe, et insegnami, perche non paventi tù della morte, il cui solo nome atterisce? Che per non moversi a compassione di chi che sia, non solo è sorda, ma sì è spogliata delle viscere? Che per ferir indifferentemente ciascuno si è fatta cieca? Che per giunger tutti porta non solamente l’ale sulle spalle, ma nelle saette? O quanto è terribile! E tu non la temi? “Non la temo”, così parmi di sentirti rispondermi, “perche mors terribilis est iis, quorum cum vita omnia extinguntur, non iis, quorum laus emori non potest. Sospirò l’anima mia questo giorno como à termine del suo essilio, e hor ch’è giunto, hò da temere? Procurai sempre con molte fatighe non far accostar all’animo mio i pensieri della carne, et hor devo ricusare di dissunirmi da essa? Non la temo”.

Colla divotione possibile ad un huomo dimanda, e riceve quel cibo pretiosissimo, che sotto accidenti di vero pane racchiude il vero corpo di Christo. Gli riuscì tanto più dolce, quanto più amari erano stati gli affetti, coi qualli l’haveva condito. Cibato il nostro Vincitore della Mana sovra-celeste, che si nasconde sotto le spetie sacramentali, Vincenti dabo manna absconditum, dal pane sacrosanto degli Angeli Panem Angelorum manducavit homo; e per dirlo in una parola, delle meraviglie di Dio, memoriam fecit mirabilium suorum, lascio à chi legge l’imaginarsi qual forza, e qual fervore di spirito ripigliasse. Abondarono dopo questo al Moribondo in tanta copia le lagrime, che pareva trasformato in un fonte. Erano lagrime di tenerezza e d’affetto; e se Deus noster ignis consumens est, perche non dirò io, che valsero le fiamme dell’amor suo, assorbite nel sacramento, à liquefargli il cuore, e distigliarglielo intieramente per gli occhi?

Rinforzato dal celeste Viatico, meglio che Elia dal pane cineritio, à lunghi passi s’incamina verso il Monte Oreb della gloria; e per correr la medesima più leggiero fà lo spoglio à sè stesso di quanto per uso necessario del suo molto ben parco mantenimento adoperava nella sua cella. Ma di chè potrà spogliarsi, se non hebbe mai cosa veruna? Chi tutto il corso della vita sacrificò alla povertà, non trova nel fine di essa cosa da lasciarvi. Se non vogliamo dar nome di spoglio alla mendicità di quei cenci, che per coprir poveramente il suo corpo erano destinati. Volendo drizzar troppo in alto il suo camino, riputò molto gravi, e noiosi, anchi i pesi minimi. Pratticò la dottrina di S. Paolo; e conoscendo, che il sentiero del Cielo è troppo angusto, per non lasciar se stesso, lascia tutte l’altre cose; ma le cose, che si dispensano qui dalla fortuna, non dalla virtù. I fregi di questa non soggiacciono allo spoglio. Sono habiti, ma spirituali; e si trasportano non solo da questa città, à quella, ma dall’un Mondo all’altro; e però Gioseppe comparirà di là da questo secolo, come nudo di cose corrottibili cosi pomposo di sempiterne.

Fù unto alla fine dell’olio santo; ò per adornar la sua lampada, affinche si trovasse in ordine alla venuta dello Sposo; o perche potesse con maggior sicurezza ad usanza degli antichi lottatori trionfare nell’ultima palestra della vita sua. Fù, non tanto l’albero, quanto il liquore spremuto da i di lui frutti simbolo di pace eterna à Gioseppe.

Dimanda con humiltà la benedittione dal sommo Pontefice; come se chi sempre era vivuto sotto la direttione de’ commandamenti della Chiesa, nè meno volesse morir senza il benepacito, e la benedittione di chi la governa.

Manda anche al Tempio Vaticano per rinovar quella fede, che sempre intiera nel corso della sua vita haveva conservato. Resesi con quest’attione Gioseppe meritevole di sentir quelle parole: euge serve bone, et fidelis.

Eragli molto caro in quell’hore estreme di sentir leggere qualche libro spirituale. Il P. Gioseppe della Visitatione, uno de’ suoi figli più cari, honorato sempre da lui di cariche riguardavoli nella Religione, sodifece in gran parte à questo suo desiderio. Egli ritornando dal Pontefice colla chiesta benedittione, dimandògli se gli era caro, che si essercitassero con lui quegli atti di pietà, che vivendo haveva insegnato ad altri, e fù da lui risposto, “Fate pure, siate benedetti, l’hò a caro”. E come non havrebbe morendo, gradito di sentir quelle cose, che procurò sempre d’imitare in tutto il corso della sua vita? È ben cieco, chi senza altra dimanda non legge nel volto di Gioseppe, essergli cara questa divota lettura. Leggete pure; che Gioseppe nei pochi momenti, che gli avanzano con miglior sentimento di quell’antico Filosofo, dice forse frà se stesso adhuc discere volo. Leggete pure; non contento di proferir ciò che si legge col cuore, perche non può colla lingua, gode, che si proferisca da quella de’ suoi figli. Se l’huomo non vive nel solo pane, ma in ogni parola di Dio, anche morendo viverà Gioseppe, sentendola pronunciar dagli altri. Leggete pure, leggete.

Arrivato à quell’ultimo, nel quale non gli erano conceduti, se non pochissimi respiri, è difficile a chi legge l’imaginarsi, quali affetti, e quali preghiere inviasse al suo Dio. Si picchiava il petto all’incontro del suo sposo; sollevava gli occhi al Cielo, meta del suo viaggio, per additarle la partenza dal medesimo; inalzava le mani a quella volta per abbracciarlo; parlava (cosi poteva credersi dal moto de i labri) ma senza che gli astanti l’udissero, ò perche lo vedeva già vicino, ò perche non è lecito, como disse Paolo, manifestare gli arcani del Paradiso. Articolava non di meno di quando in quando la fievolezza del fiato, ma non sapeva formar altre voci, che Giesù, Giesù, che gli era nel cuore, non si partiva dalla sua bocca. Non voleba uscir quell’anima, salvo che sotto la guida di si bel Nome; “Giesù mio”, forse seco stesso, diceva, “gia miro giunto quel termine, in cui sciolta da questi legami del corpo sia fatta degna l’anima di vederti, di adorarti. Ma ché disi, di vederti, di adorarti, se la gravezza delle mie colpe non permette alla speranza un volo così felice? Ti vederò, ma chi sà, con occhi di reo? Signore, se lo scudo della tua misericorida non mi difende, la spada della tua gisutizia già mi colpisce. Perdonami. Cerco assai. Ma qual pazzia sarebbe cercar poco ad un Dio! Perdonami; e dove mancano i miei meriti, abondino quelli del tuo sangue; e sia la tua morte cagione della mia vita. Perdonami; e se le mie preghiere sono immeritevoli di gratia, tu, Vergine Santissima, impressa nel mio cuore, et espressa nel mio nome, tu prega per chi sempre hà confidato nell’efficacia delle tue intercessioni. Tu, che per la tua purità hai fatto un Dio scendere dal Cielo agli huomini, fà, che un huomo ascenda in Cielo al godimento di Dio. Soccorrimi Maria; aiutami Giesù”. E trà la soavità di questi nomi, spirò soavemente Gioseppe, e restituì l’anima ben avventurata al suo Creatore, lasciando incerti gli astanti suoi figli, se dovesser prorompere in voci di mestitia, ò di giubilo. Conoscevano ad un fine così pretioso doversi più queste di quelle; ma prevalse nelle prime commotioni dello Spirito il dolore, e si sparsero lagrime abondantissime da ciascheduno, ma non senza, benche all’hora non avenita, celeste consolatione.

Non così tosto terminò questa sua vita fra le (huomini) Gioseppe, che subito cominciò Roma à spogliare le piazze, et i palazzi d’habitatori, che invitandosi l’un l’altro, concorrevano à mirare, et ammirare lo spettacolo del suo corpo. Colui, che vivo haveva rifiutato à tutta forza gli honori, è necessitato à ricevergli morto. Il suo sembiante più di vivente, che di cadavere indicava chiaramente, che Gioseppe viveva doppo la morte. Insomma la morte non hebbe in lui tutte le sodifastioni. Haveresti detto che dormisse, et haveresti detto il vero, perche la morte de’ giuti non è morte, è un riposarsi.

Tal fù Gioseppe; o tù, che leggi, impara
che non risplende in Ciel chi non e pio;
e che sol quella vita in terra e chiara
che si comincia, e si finisce in Dio.

Al Molto Illre. Et Molto Rdo. Pre. Sgre. Pron. Mio Colmo. Il Pre. Giuseppe Eustachio Pennazzi da Pesaro de Poveri della Mre. delle Scuole Pie di Dio Assistente Generale.

Si compiacque la Pa. Vra. Molto Rda. Mandarmi la vita del venerabil Servo di Dio Gioseppe Calasanz forndatore della sua religione per darmi con esso una breve informazione del suo istituto à fine d’introdurlo in questa citta, degna patria de V.P.M.R.

Confesso che mi è riuscito l’istoria tanto cara che per lo desiderio che tengo di veder ampliato il d. Istituto a beneficio di questo popolo non ho potuto non comunicarla ad altri che ne vinono parimente desiderosi; e questi si come l’hanno singolarmente gradito così m’hanno persuaso di darla alle stampe e dedicarla alla P.Vra.Mto.Rda. che me l’haveva inviata. Le offerisco dunque quello ch’è suo e che per molti capi non ad altri che a lei le conviene.

È molto ben noto quanto l’habbia amata il suo fondatore et all’incontro quanto ella si pregi d’haver patito in varii tempi per esso d’esser stato l’ultimo che dalla di lui mano habbia ricevuto l’habito religioso, il che segui in cotesto noviziato di Roma d’haverlo per qualche spatio di tempo servito ed a serli giovito assistente alla si lui ultima infermità, e presente alla morte, tutti motivi da farmi credere ch’ella godera in stremo di veder le virtù del medº. V. Padre publicate colle stampe. Oltre che l’ardor grande con che ella si adoperò essendo compagno assegnato al M.Rdo.P. Gioseppe Fedeli detto della Visitatione già Asste. Gnle. per lo ristabilmento della loro religione che ottennero l’anno 1656 dalla Somma Pietà di N.Sgre. Alessandro Settimo Regnante, m’inducono a sperare che lo siano per riuscire medesimamente gratissme. lo pubbliche espressioni de primi avanzamenti di essa.

Sogliono molti in simili occasioni diffondersi nelle lodi et encomii della persona a cui si dedica l’opera, ma io havendo per esperienza conosciuta la di lei humiltà, sdegnosissimo d’udir tutto ciò che può ridondare in sua lode, passo per non disgustarla sotto silencio non solo quel che potrei accennare delle prerogative della sua famiglia ch’è stata sempre feconda d’huomini cospicui tanto in pietà e religione quanto in armi et in letere, ma anche gl’honori che la sua medesima persona ha in ogni tempo ricevuti nella religione e le cariche primarie e riguardevoli che ha in essa essercitate, et al presente essercita con piena sodisfazione de suoi religiosi e con notabile utilità et avanzamento del suo istituto, per qui sempre più pregandole dal cielo l’aumento d’ogni felicità, le bacio riverentemente le mani.

Di Pesaro li 14 maggio, 1666.

De V.P. molto Ille. E molto Rda.,

Devotissimo et obligatissimo servitore,

Girolamo Salvadori

Notas